“Scrivere significa cercare di immettere la propria esperienza di vita in un insieme di buffi simboli, particolarmente deboli, nella speranza che l’esperienza simbolica in se stessa possa produrre una nuova esperienza creativa, con qualcosa in più rispetto a quella originaria, che è stata simbolizzata o utilizzata come metafora” (Whitaker 1990, p.205)
Mi sono resa conto di quanto mettere nero su bianco mi aiutasse a rielaborare e rivedere un’esperienza, un incontro, una relazione, anche terapeutica, con uno sguardo più ampio e nitido. Come dice Whitaker, non so se riuscirò a rendere in simboli la ricchezza di un’esperienza ma mi aiuterà a tenere traccia di pensieri che sarebbero altrimenti sparsi e, forse, persi.
In un mondo in cui tutto è stato detto e poco dopo anche contraddetto, spero comunque che questo mio tentativo possa offrire qualche spunto anche a chiunque avrà la pazienza di leggere.
La vibrazione del silenzio
Il silenzio è la libertà di trascendere la necessità del progresso, la libertà di raggiungere l’individuazione all’interno della libertà di essere in due. Whitaker (1990).
Vi siete mai immersi in una conversazione con un gruppo di persone che parlano una lingua diversa dalla vostra? Per quanto la parliate, la comprendiate, l’abbiate studiata, quella lingua non è la vostra.
La sensazione che si prova, nel cercare di stare al passo con quanto viene detto, è quella di essere sempre in ritardo, di non avere il tempo di dire la propria opinione perché ormai è troppo tardi, troppo il tempo speso per capire, magari nemmeno tutto. E allora si tace, con un pizzico di frustrazione. Questo mi ha però fatto riflettere molto. Che tutto questo possa diventare un’occasione?
Passare attraverso la frustrazione di dover tacere, mi ha infatti ricordato l’incontro con un piccolo paziente, uno di quelli che ricorderai per sempre perché ti accorgi di quanto ti abbia aiutato a crescere.
Questo bambino di 11 anni, che chiamerò Fabio, incontrato in Neuropsichiatria Infantile, non parlava. Sorrideva ed aveva uno sguardo lucido ed eloquente ma non diceva una parola. Con lui, dopo il vano tentativo di trovare un aggancio verbale mi sono permessa di aspettare e di tacere, di onorare il tempo del suo silenzio.
Lui mi ha insegnato il valore di stare in silenzio e di non soffocare con le parole quanto dietro al silenzio era celato.
La bellezza di potersi incontrare senza le parole costringe ad un ascolto profondo dell’altro e di se stessi, come quando non si riesce a dire ma, in compenso, lo sforzo per l’ascolto dell’altro è preponderante e arricchente.
Prima di allora, per me il silenzio era stata solamente un’esperienza di solitudine, uno spazio per sé, di dialogo con se stessi.
Per chi è cresciuto in città rumorose come me, il trovarsi in montagna, di notte a osservare le stelle, senza auto che passano, senza voci che risuonano, senza orologi a ticchettare è un’esperienza trasformativa. Non tutti hanno avuto la fortuna di farla e di apprezzarne l’intensità. Quel silenzio quasi rimbomba per un po’, non si riesce a sentire. Poi accade qualcosa e ci si ritrova immersi in altri suoni, il rumore del vento, lo scorrere del fiume, il suono degli animali notturni che si muovono. Fino a qualche anno fa pensavo a questo spazio come ad un tempo per entrare in un dialogo profondo con me stessa. Ma, a pensarci bene, è solo l’assenza dei rumori quotidiani che mi ha fatto considerare quell’esperienza come “silenzio”.
Tutti i silenzi hanno un suono. Ezio Bosso, un direttore d’orchestra, suggerisce sempre ai suoi musicisti di pensare che anche quando non stanno suonando “il loro strumento sta vibrando al suono dell’altro”.
“Vibrare al suono dell’altro” è un’espressione che mi ha colpito molto perché la vibrazione è un qualcosa di tattile ed è quanto l’incontro con l’altro suscita. È corporeo e spirituale al tempo stesso, come le relazioni.
Tutti i silenzi permettono un ascolto di qualcosa che è altro da sé oltre che di qualcosa di sé e allora ogni tanto, lasciamo tempo al silenzio, perché le parole possano risuonare con calma.